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Chiuso per crisi: in tutta Italia scompaiono negozi e botteghe storiche

DiGiuliano Monari

Dic 5, 2019

Serrande abbassate, non è una questione di orario, giorno o stagione, sono abbassate perché il proprietario non ce la fa più, time out, addio, è stato bello finché possibile.

Un allarme che sbaglieremmo a considerare affare dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade. Che diventano semplici luoghi di passaggio. Non solo: i negozi sono un presidio che assicura la cura e la pulizia delle vie. Sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro. Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine.

Milano, Torino, Genova, Roma o il Sud Italia, è sempre uguale, secondo Confesercenti i più colpiti sono bar e ristoranti, librerie e negozi di abbigliamento: tra luglio e agosto di quest’anno, per ogni nuova impresa commerciale avviata, ben due sono defunte. A giugno 2014 più del 40 per cento delle attività aperte nel 2010 ha chiuso e bruciato investimenti per 2,7 miliardi di euro. Un collasso. Così basta passeggiare per le vie, non solo periferiche, ma anche centrali delle città per scoprire cartelli con su scritto vendesi o affittasi; in alcuni casi si parla di “obsolescenza”, riferito a tutte quelle attività colpite dallo sviluppo del commercio in rete, quindi le agenzie di viaggio, i negozi di musica, home video, le librerie o le edicole (quattro chiusure ogni due nuove aperture). Alcuni numeri: i ristoranti segnano un meno 2.500, malissimo il commercio in sede fissa (-14mila negozi), il business delle sigarette elettroniche (4 chiusure per ogni nuova apertura), l’abbigliamento (addio a 3300 negozi). Inutile l’estremo tentativo dei saldi estivi: il Codacons stima che la quota di spesa media mensile dedicata al vestiario dalle famiglie italiane si è attestata dal 2012 al 5 per cento: quasi la metà del 13,6 registrato nel 1992, e che ci poneva, assieme al Giappone, al vertice della classifica mondiale.

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