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Il disastro del Vajont si verificò la sera del 9 ottobre 1963 quando una frana precipitò dal sovrastante pendio del Monte Toc nelle acque del bacino realizzato con l’ononima diga; furono coinvolti dapprima i paesi di Erto e Casso, poi l’inondazione portò alla distruzione del fondovalle, tra cui Longarone e la morte di circa 2000 persone tra cui 487 persone di età inferiore ai 15 anni. Michela è una sopravvissuta; quella notte era nella sua stanza quando sentì un grande tuono, strano perché l’estate era finita; aiutò la nonna a chiudere le imposte e tornò a letto. I ricordi sono confusi, ma si ricorda bene di una mano che tirava la sua per tirarla fuori dal fango. Oggi Michela è una nonna, ma la sua vita è stata segnata da quella tragedia in cui ha perso tutti i familiari: il padre che lavorava nella diga, la madre che lavorava in un hotel a Longarone, i fratelli e le sorelle, la nonna che abitava con loro. Solo del padre fu trovato il corpo. Michela vuole testimoniare anche questo: le vittime senza nome. Il suo racconto è lucido, è la testimonianza di chi non si arrende, di chi vuole ricordare in nome delle vittime, cercare una verità che sarà sempre più difficile da ricostruire. A 60 anni dal tragico evento, questa testimonianza ci ricorda che l’uomo non deve mettersi contro la natura; nel 2008, durante l’anno internazionale del pianeta terra dichiarato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in una sessione dedicata all’importanza della corretta comprensione delle scienze della terra, il disastro del Vajont è stato citato tra i cinque “disastri evitabili”, causato dal fallimento nel comprendere la natura del problema. Gli alunni e le alunne presenti all’incontro, si sono alzati in piedi, commossi, in segno di rispetto delle vittime. L’incontro è stato organizzato grazie alla “Fondazione Vajont 9 ottobre 1963”.
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