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ITALIA … Un Paese fermo ormai a crescita zero.

DiGiuliano Monari

Lug 7, 2019

Una volta ogni casa era un capannone, una partita IVA; tanto lavoro, tanta dedizione e tanto benessere …. si è VOLUTO distruggere quel sistema economico, ripeto, si è VOLUTO DISTRUGGERE.

I dati di fatto sono purtroppo eloquenti quanto impietosi. Oltre a un debito colossale che è il terzo più elevato del mondo, il nostro livello di produttività oraria è largamente inferiore a quello tedesco e francese (tanto che ci vogliono da noi 56 giorni in più all’anno per produrre lo stesso bene che in Germania).

Lo stock degli investimenti è in costante calo e così la fiducia degli imprenditori; i casi più eclatanti di crisi aziendali sono 160 e non si vede per il momento come poterli avviare a soluzione, tanto si tratta per lo più di cause strutturali, ma anche di mancate iniziative appropriate prese per tempo; 430 sono i cantieri bloccati al Nord e 130 al Sud; il capitale umano, a cominciare da quello dei laureati (il 14% del totale), è tra i più scarsi del mondo occidentale; e in fatto di digitalizzazione siamo al penultimo posto nella graduatoria dei 28 Paesi della Ue.

Certo, sappiamo che sovente l’andamento della nostra economia è stato come quello del volo di un calabrone: tante sono le pesanti anomalie di cui essa ha continuato a essere gravata, ma reiterati sono sempre stati i suoi sforzi per tornare a volteggiar con successo verso l’alto e riprendere velocità. Al punto che siamo riusciti ad affermarci come la seconda manifattura d’Europa.

Ma c’è un momento in cui non si ha più la possibilità di reggere a questo estenuante andirivieni su e giù; e oggi è ormai evidente il rischio di questa drammatica evenienza: perché adesso a certi tradizionali e mai risolti handicap (tra croniche carenze infrastrutturali, pesanti pletore burocratiche, gravi oneri fiscali) si stanno aggiungendo altre incongruenze paradossali e surreali per un Paese in cui l’impresa è il motore dello sviluppo e dell’occupazione: ossia la reviviscenza di un’astiosa cultura antindustriale.

Si tratta di un atteggiamento composto da una miscela deleteria e paralizzante di pregiudizi e ostilità viscerali, di insipienza e di dilettantismo, contrabbandata come spirito di servizio e senso dello Stato.

Questa sorta di acredine e di arroganza nei confronti dell’imprenditoria emersa in pieno nei giorni scorsi – con gli attacchi rivolti a due società quotate in Borsa e avvenuti a mercati aperti, come Autostrade (ancor prima di una sentenza definitiva della magistratura) di Atlantia, per non parlare dell’improvvisa sortita sulla questione dell’immunità temporale nell’ex Ilva, per fortuna in fase di correzione – sta mettendo a repentaglio migliaia di posti di lavoro e scuotendo la credibilità dell’Italia nei mercati e tra gli investitori.
Purtroppo si tratta di un abito mentale tipicamente italiano dove vengono definiti con l’insulso appellativo di “prenditori” quanti sono a capo di un’azienda di qualsiasi genere ed il vero motivo è esclusivamente l’essere pervasi da mera demagogia e invidia sociale.

Inutile dirlo che la vera ricchezza economica di un paese è creata dalle sue industrie, dalle sue imprese e da tutti coloro che creano lavoro e tecnologia ma in Italia la lotta alle imprese è insensatamente sempre più agguerrita. Nulla si fa per attrarre investimenti, tutt’altro, si studiano tutti i modi possibili per demolire quei pochi che ancora fanno produzione in Italia.

Fonte Il Sole 24 Ore

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